Questo avrebbe detto Nichi Vendola: “Mi scuso con il mio popolo. Al telefono con Archinà, portavoce dei Riva dell’acciaieria di Taranto, avevo un tono di indecente intrinsechezza, una intimità un po’ oscena fra potenti, alle spalle di un giornalista rompicoglioni. Ho sempre predicato e trasmesso valori rovesciati rispetto a quell’immagine che mi è esplosa contro con anni di ritardo. Ora mi vergogno profondamente. Alle scuse segue un periodo di astensione e di raccoglimento, che vi prego di concedermi, perché il senso di futilità e di doppiezza morale che quelle risate pastose e servili hanno gettato su ciò che penso o pensavo di essere mi opprime, e non so se riuscirò a cancellarlo per riprendere tra voi il mio posto”.

E’ l’affermazione del partito-persona, ma Berlusconi non inventa nulla, il modello arcaico e archetipico del condottiero solitario che redime il suo popolo: “Mi scuso con il mio popolo”, esordisce Vendola. E’ la crisi dei partiti di massa risolta con il ripescaggio e la riemersione di ciò che c’è sempre stato, con il recupero di un modello antropologico evidentemente sedimentato, non un semplice balzo all’indietro nella storia, ma qualcosa di più articolato. Questo dal lato pubblico, poi c’è il lato privato e individuale, in parte conseguenza del primo. Il potere che erompe nella propria vita e altera la percezione del sé pubblico, la scena pubblica come dimensione favorevole alla produzione di altri sé. Come dato politico questo ci dice che l’evoluzione storica dei modelli e delle relazioni pubblico-privato forse non è irreversibile o che l’evoluzione è certamente fluida e non rigida. Ma non è solo una questione di immagine, non è solo l’immagine pubblica che a Vendola gli “esplode contro”. E’ l’inavvertito mutamento e produzione dei sé quello più che lo turba, tanto da indurlo a dichiarare di aver bisogno di un periodo di riflessione sul suo percorso, di un’astensione ma forse intendeva dire: di un’astinenza. Certo i segnali di questa sua varietà identitaria si erano manifestati anche in altre occasioni. La inevitabile contiguità con i poteri forti da un lato, la mediazione e la necessità di mantenere consensi trasversali per attuare le proprie politiche dall’altro, evidentemente lusingano prima e finiscono poi con il “corrompere” anche i migliori. Ma non è solo una questione di etica pubblica.

E’ il modello stesso del governo rappresentativo che pone degli interrogativi. Perché attesta un potere difficilmente controllabile e arginabile se non in una fase tardiva (attraverso il voto o sempre più frequentemente, come alternativa, attraverso l’intervento della magistratura) e ormai nelle fasi più acute delle vicende, a danno economico, ambientale, sanitario e sociale consolidato. La vicenda Riva-Ilva ne è un esempio emblematico. La macchina statale e la macchina politica funzionano con una tecnologia inservibile. Nessun congegno tecnologico sarebbe mai prodotto e neanche progettato senza un rapido meccanismo di aggiustamento retro-attivo. Nessuno lo comprerebbe, neanche come giocattolo, sarebbe “spazzatura” pura. La retroazione politica è tarata su tempi improponibili, un aggiustamento generale ogni 5 anni, piccole modifiche (quando va bene) a distanza di mesi, un anno, due… elaborate dagli organi istituzionali.

Ma la questione (all’ordine del giorno ma antica come la civiltà umana) della doppiezza, del sé composito e del sé pubblico come visita di ospiti inaspettati, introduce anche il tema delle proprie maschere e delle proprie parti “ombra”, dei personali desideri (più o meno inconsapevoli) di totale autoaffermazione, cui peraltro (nel caso di copertura di incarichi pubblici) il modello di governo rappresentativo così come è oggi strutturato, sfuma o cancella ogni argine. L’evoluzione storico-politica avrebbe dotato le nostre società di parziali antidoti: la terzietà del potere giudiziario e, sempre più, il ruolo di denuncia dei media. Antidoti parziali contro questa osmosi e contiguità tra pulsioni individuali e poteri pubblici e privati. Certo neanche i procedimenti giudiziari, laddove vengano avviati, e non sempre lo sono (e dopo decenni di frequente contiguità e quiescenza delle magistrature) né le intercettazioni e la cassa di risonanza dei media sembrano sufficienti ad arginare la forza persuasiva e prorompente dei poteri forti e la connaturata tendenza di cittadini e gruppi sociali strutturati a blandirli come oggettivo strumento di protezione e salvezza personale.

Ma c’è un altro aspetto implicato nella questione. Le persone designate a rappresentare i cittadini appartengono a, ed ereditano di fatto, una pubblica scena (la radice semantica ha sorprendentemente il significato di luogo coperto, luogo ombroso). Da qui la tradizione li assiste nell’allestire sceneggiature, trame, performazioni del tutto simili a quelle teatrali (quel sacro teatro che rivela i sé, i mille volti del dio). La politica dunque non è tanto o non è solo il luogo della rappresentanza ma anche il luogo della rappresentazione, della rappresentazione dei propri sé, conosciuti o meno, anzi più spesso ignoti a se medesimi. Rappresentare, riportare. Il teatro non è tanto riportare quanto portare. Una porta che si dischiude su luoghi sconosciuti, non è mera e pedissequa riproduzione o rappresentanza, ma produzione e rivelazione, disvelamento. Il paradosso del modello “spazio pubblico-spazio scenico” è evidente. Impossibile agli uomini di potere, ai rappresentanti, riprodurre in concreto e attuare pedissequamente le prorpie dichiarazioni di intenti. E tanto più, è impossibile riprodurre (rappresentare) l’altrui volontà, impossibile riportarla sic et simpliciter, è la natura stessa della rappresentazione (scambiata per rappresentanza) che impone un margine fluido di interpretazione. La volontà e le dichiarazioni di intenti non contano quanto essi stessi vorrebbero (quando questo non costituisce un alibi sgangherato). La volontà è solo la parte più superficiale del sé, l’ultima arrivata, non ha sempre influenza sulla parte più profonda. Il modello vigente rappresentativo consente ampi margini di arbitrio e libertà e tali margini sono fantasiosamente o protervamente colmati.

Vendola medesimo dichiara di aver agito in “una oscena intimità”, (quella oscena e tecnologica intimità del mezzo usato) che è parte dello spazio politico. Lo spazio scenico, ombroso e coperto, del politico. Osceno nel senso di assenza di una scena definita, dotata di margini individuabili, un’ipervisibilità la cui assenza di contorni la rende paradossalmente invisibile. Uno spazio fusionale e indistinto, simile allo spazio del sacro quindi.

Il Politico e l’azione scenica. I migliori attori sono quelli che abbattono la sesta parete, quella che separa il conscio dall’inconscio. In un certo senso, nello spazio e nei margini amplissimi del politico, si tratta di quella parete, abbattuta la quale emerge quell’ “indecente intrinsechezza” e contiguità di cui parla Vendola. Perché dovremmo pretendere dagli uomini pubblici di essere dei pessimi attori? Sarebbe ingeneroso e paradossale, anche se eticamente fondato. Vogliamo e dobbiamo rendere necessario tale paradosso? Vogliamo forse riedificare quella immaginaria quarta parete scenica che separa il pubblico dagli attanti? Dissolvere quella sospensione del dubbio necessaria alla buona riuscita dello spettacolo? Abolire quel quinto spazio, quelle quinte necessarie alla costruzione e alla credibile messa in scena del rito-collettivo? Eppure questo saremmo paradossalmente e fuori contratto tenuti a fare. Il contratto imporrebbe altro. La rottura del contratto tacito preteso dai rappresentanti pretenderebbe, tra le altre cose, la marchiatura a fuoco bovina dei rei con l’epiteto di populista oggi, sovversivo ier l’altro, fatte le dovute differenze. Il marchio di populista (generosamente brandito anche a sinistra) sembra essere diventata una scomunica laica, quasi il corrispettivo di quello che la Santa Inquisizione applicava secoli or sono ai miscredenti e agli eretici, un auspicare la cacciata dei rei dalla comunità politica d’appartenenza.

La mimesis (in uno dei possibili significati)) del politico cui il pubblico assiste e partecipa, richiede innanzitutto l’immaginazione di quest’ultimo. Notoriamente gli strumenti di lavoro del mino sono l’abilità performativa, una certa propriocettività muscolare, il vuoto dello spazio scenico e l’immaginazione degli astanti ivi inclusi. Egli corre ma è fermo, si carica faticosamente di un fardello che non esiste, tesse con ago e filo immaginari. Niente è più convincente, meno prosaica e più poietica di un’azione immaginaria ben costruita. Un’azione prodotta in coworking. E’ la sostanza stessa dello spettacolo l’immaginazione e il candore di chi vi assiste, la sospensione del dubbio appunto.

Oltre l’indecente e la melmosa intrinsechezza con Archinà (il mazzettaro dei Riva) Vendola a suo modo è un’eccezione quasi assoluta. I protagonisti della scena politica di solito non si specchiano mai in “un’immagine che gli esplode contro”, alle loro disavventure telefoniche trasecolano sempre per l’ostilità immeritata che gli procurano. Non riconoscono mai la loro immagine (distorta dal malaffare e dal privilegio) nello specchio di chi li osserva. Non si scoprono mai diversi o umanamente peggiori da come si sono sempre narrati e raccontati.. Un riscoprirsi “carnefici” o padroni quando ci si era sempre pensati zelanti servitori. Per questo Vendola, avendo la capacità umana di sapersi specchiare e soprattutto riconoscere nello sguardo degli altri, ancora una volta a suo modo costituisce un’eccezione. Questo va detto, senza peraltro voler giustificare in alcun modo le sue performance e i pasticcini da lui consumati negli osceni bar del potere.

C’è un percorso denso, pluristratificato, di millenni, sedimentato di archetipi e maschere inaspettate e sepolte, di profondi aspetti rituali. E questo è riflesso nello spazio politico presente. Il passato è molto più vicino di quanto pensiamo. Questo non è necessariamente negativo, dipende.. A dispetto di quanto comunemente si possa credere, la politica appartiene in gran parte alla dimensione comunitaria, rituale e simbolica del sacro. In buona parte lo spazio scenico, pubblico, comunitario è archetipicamente uno spazio del sacro. In molti casi abbiamo bisogno di essere e siamo ciò che non sappiamo e non vorremmo essere. In molti casi abbiamo bisogno di credere. In un certo senso, l’unica cosa di cui abbiamo bisogno è credere, aver fiducia o fede. E nonostante le apparenze, le smentite e le contro-deduzioni, la fiducia negli dei, nei nostri simili e nel futuro non ci abbandonerà mai. E questo sarà radice di ogni male e di ogni bene negli anni a venire.

Carmine Nacci

Vendola: Mi scuso con il mio popolo.ultima modifica: 2013-11-22T18:38:39+01:00da casadelpopoloff
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